cultura solidarietà

Spunti  di  Riflessione dai  Seminari OPEN GROUP

 

VOLONTARI   ovolontari o genitori

Riflessioni  sul ruolo educativo
Interlocuzioni e risposte di Claudia Rasetti (psicologa)

Sul RUOLO  del VOLONTARIO

L’attività di volontariato si può rivolgere a soggetti di tipologia molto diversa, per età, per condizione socio – economica, per tipologia di disagio e di bisogno.
Possiamo svolgere attività di volontariato con persone con handicap psichico, oppure fisico, o entrambi. La persona con cui il volontario si relaziona, le sue abilità e disabilità, il disagio e la modalità di gestione di tutto ciò nella sua vita quotidiana, posiziona il volontario in una costante relazione di confronto, scambio ed empatia. Se l’empatia aiuta a comprendere l’altro mettendosi dalla sua parte, dal suo punto di vista, la dis-identificazione aiuta a non perdere di vista le differenze tra noi e l’altro.

Sul  Volontariato  del GENITORE

Non è semplice tanto più fare del volontariato quando siamo “madri” e quando le persone con cui stiamo lavorando ci ricordano molto quelle che abbiamo vicino nella nostra vita familiare quotidiana, ad esempio i nostri figli. Innanzitutto sarebbe opportuno non lavorare con gruppi in cui siano inseriti i nostri figli, altrettanto opportuno sarebbe dedicarsi a situazioni diverse da quelle che si vivono nel proprio quotidiano.

Non è semplice se le persone con cui siamo (a cui ci dedichiamo come volontari) ci ricordano molto ad esempio un/a nostro/a  figlio/a.

Facciamo un esempio: c’è una mamma che ha una figlia che nell’adolescenza manifesta problemi gravi di anoressia. L’iter problematico della ragazza è lungo, faticoso e molto doloroso per l’intera famiglia; la ragazza mantiene anche in età adulta qualche atteggiamento problematico verso il cibo, ma a suo modo ha raggiunto un  equilibrio.

La situazione diventa nuovamente vulnerabile quando la madre decide di fare del volontariato e di farlo proprio con adolescenti anoressiche, sicuramente perché pensa di potersi rendere utile grazie alla sua esperienza. Sappiamo che esistono contesti di cura in cui ex-tossicodipendenti lavorano per aiutare soggetti a loro volta dipendenti da sostanze Sono situazioni delicate. L’operatore riesce sì ad aiutare, se è riuscito ad andare oltre quell’esperienza. Se l’ha trasformata, se è riuscito a trovare un equilibrio dentro e fuori, allora, magari, può essere davvero d’aiuto. In questo senso sarebbe meglio che la madre (dell’esempio sopra citato) avesse elaborato la sua storia familiare, solo in questo modo forse può mettere a disposizione degli altri la sua esperienza. Ma è bene aver chiaro fin dall’inizio che il suo impegno le costerà gioia e fatica; non sempre infatti l’elaborazione dell’esperienza avviene da sé, e soprattutto da soli. Inoltre in molti contesti la “supervisione”, luogo dove gli operatori discutono i “casi” e/o elaborano i loro vissuti, risulta essere troppo onerosa o non rientra nel budget di spesa previsto per quell’intervento. Tornando quindi alla mamma del nostro esempio, può accadere che per un certo periodo la sua attività di volontariato vada bene, poi magari accade qualcosa - ad esempio ad una ragazza capita una cosa simile che era successa a sua figlia e che lei non aveva superato - e allora la madre si ritrova nella stessa situazione di un tempo. A questo punto ci vuole qualcuno che sostenga la madre volontaria, che la aiuti a lavorare sulla sua difficoltà, soprattutto perché la reazione potrebbe non essere utile né per sé né per la persona che sta sostenendo. La reazione più semplice e facile per togliersi dal disagio è spesso poi quella della fuga dalla relazione di aiuto.
Possiamo allora concludere che forse è vero che se uno lavora continuamente sulle proprie esperienze dolorose forse può anche dedicarsi a chi ha le stesse difficoltà – proprie o di un suo familiare-, soprattutto nel caso in cui sia presente una struttura che offre sostegno agli operatori.  Se un operatore però può scegliere, considerato che l’elaborazione di ciò che capita nella vita  non sempre si apre e conclude in un tempo e spazio unico e determinato, forse allora sarebbe meglio rivolgersi a persone con situazioni differenti dalle proprie. Il rischio altrimenti è quello di identificarci troppo con quella situazione ed entrare troppo a contatto con sentimenti dolorosi che ci appartengono o che ci sono appartenuti. Quando incontriamo le persone ci confrontiamo con esse e con le loro situazioni, l’altro è come uno specchio: gli atteggiamenti dell’altro ci ricordano qualcosa di noi o qualcuno vicino a noi. Meno ci identifichiamo in modo “adesivo” e più siamo liberi di vedere l’altro qual è, coinvolgendoci in una situazione di scambio e differenziazione e non in una relazione simbiotica.

Inevitabilmente con l’identificazione con l’altro si ripropongono situazioni vissute che possono essere a volte difficili per il volontario, situazioni che possono compromettere il rapporto con l’altro: ad esempio il rischio di comportarsi da “madre” e non da “volontaria”. L’avvicinarsi a situazioni simili alle proprie non solo implica il rischio di sentir risuonare sensazioni ed emozioni difficili da rielaborare, come finora detto, ma anche di riattivare ruoli che in quel momento non sono opportuni e utili. Il ruolo della volontaria è diverso dal ruolo di madre. Si può essere contemporaneamente madre di Luigi e operatrice – volontaria di Luca ma non essere nello stesso tempo operatrice volontaria e ‘madre’ della stessa persona.
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(© diritti  d’autore ed  editoriali del Centro Studi ARSDiapason)

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